Il profondo impatto che il comportamento suicidario ha sulle famiglie e sulle comunità e la natura universale del problema, pone le basi per diverse riflessioni sul tema. Una di queste riguarda l’evoluzione del concetto stesso di suicidio, che segue una linea temporale che si interseca con le differenze storico-culturali caratterizzanti tutte le civiltà, delineando credenze e atteggiamenti.

Il profondo impatto che il comportamento suicidario ha sulle famiglie e sulle comunità e la natura universale del problema, pone le basi per diverse riflessioni sul tema. Una di queste riguarda l’evoluzione del concetto stesso di suicidio, che segue una linea temporale che si interseca con le differenze storico-culturali caratterizzanti tutte le civiltà, delineando credenze e atteggiamenti.

Nell’antico Egitto, il suicidio era visto come fuga da una situazione insostenibile e rappresentava una scelta possibile e accolta senza condanne. In Giappone, la pratica del “seppuku”, il suicidio volontario o obbligato, rappresentava la salvaguardia del proprio onore, l’espressione di cordoglio per la morte di un superiore o un atto di ribellione contro un’ingiustizia.
Tra gli Etruschi, il suicidio era un mezzo per elevarsi, mentre per Romani poteva rappresentare un gesto di coraggio o una possibile soluzione al disonore, in particolari situazioni.
L’avvento e la diffusione del cristianesimo modificò in modo sostanziale il concetto di suicidio, considerato come un grave peccato, un atto contro il volere di Dio; già nel 1200, Tommaso D’Aquino definì il suicidio non solo un peccato, ma anche un crimine contro la comunità.

Nonostante la loro diffusione in tutte le epoche storiche, è solo dal 1630 che gli atti per procurarsi la morte vengono racchiusi sotto il termine “suicidio”, fino ad allora non utilizzato. È in questi anni che il suicidio inizia ad essere considerato un crimine contro sé stesso, giudicabile tramite processo. Il suicida, se considerato colpevole, subiva la confisca di tutti i beni, messi a disposizione del regnante.

In Inghilterra tra il 1600 e il 1800, ai morti suicidi veniva negata la celebrazione del rito funebre e venivano sepolti lungo le strade, ai crocevia, posizionati proni con il volto in basso, per impedire la vista del cielo. Le mani erano mozzate o le membra trafitte con pali di legno. Tali soluzioni, stavano ai indicare i primi discutibili tentativi di prevenzione di suicidio.
A fine 1600 le condanne divennero più lievi: i beni venivano svalutati ma lasciati alle famiglie del suicida, a tutela delle famiglie più povere. Inoltre, per evitare di infierire sulle famiglie già traumatizzate dal suicidio del congiunto, il suicida fu spesso giudicato “non in controllo della propria mente” e dunque non punibile come autore di un crimine. Il suicida non era un criminale ma un malato di mente, affetto da uno stato di follia che lo induceva a ragionare in modo anormale.

Per molto tempo si è pensato che fosse impossibile comprendere la mente del suicida e spiegarne le dinamiche e bisognerà aspettare fino al Novecento, con l’avvento della ricerca scientifica e le teorie psicoanalitiche, per ammettere che il disturbo mentale contribuisce al rischio di suicidio, ma non in modo esclusivo. Il suicidio è infatti un fenomeno multifattoriale, su cui incidono variabili storico-culturali, biologiche, psicologiche.
Nella gestione del suicidio, la sua definizione concettuale perde dunque di importanza: punto di svolta è, piuttosto, la comprensione profonda del percorso con cui l’individuo matura l’idea di voler morire.